Paolo è un fotografo Romano classe 1978, ho seguito la sua fotografia che ha subito una mutazione negli anni portandolo a un approccio molto personale che lo interfaccia con la sua emotività.
Per me Paolo è un amico e condividiamo il meraviglioso mondo della fotografia, dell’investigazione e della condivisione.
Le domande
IO : Com’ è iniziata e come si è sviluppata la tua personale storia con la fotografia?
Paolo : È iniziato per caso circa 16 anni fa, quando ho visto la foto di un ragazzo, presumibilmente americano, scattata sotto il ponte di Brooklyn. Sono rimasto mezz’ora a guardarla, incapace di capire come avesse fatto a catturare così bene l’autunno newyorkese e a trasmettermi quel senso di freddo mentre la osservavo.
Così il giorno dopo ho iniziato a fotografare. In realtà, non sapevo esattamente cosa stessi facendo, ma volevo vedere se riuscivo a replicare, non le foto, ma le emozioni che lui aveva trasmesso a me e agli osservatori dei miei scatti.
IO : hai cominciato fin da subito a fare fotografia di strada?
Paolo : All’inizio ero un cacciatore, mi piaceva girare per la città senza una meta alla ricerca di persone particolari o di situazioni interessanti da narrare. Poi, sette anni fa, quando mi sono ammalato e non riuscivo più a camminare molto, ho lasciato piano piano la fotografia, fino a mollarla del tutto. È stato un trauma e una sofferenza interna molto grande, e sono stato molto tempo senza scattare. Quando è arrivato il Covid, nonostante stessi male, ho ripreso in mano la fotocamera. È stato un ottimo momento per fare dei ritratti di vita quotidiana alla mia famiglia. Da lì è tornata la voglia di rimettermi in gioco, ma era cambiato tutto. Il mio modo di vedere il mondo e le persone era diverso e me ne accorgevo dai miei scatti. Tenevo le persone più a distanza, non a causa del Covid, ma per una sensazione che partiva da dentro. Non volevo l’incontro con i soggetti che entravano nella mia inquadratura, cosa che prima cercavo. Il mio distacco dalle persone si rifletteva anche nelle mie fotografie. Questo mi ha fatto riflettere su quanto l’emotività di una persona influisca sul suo lavoro fotografico.
Le persone mi interessavano relativamente, erano soltanto dei soggetti che mi aiutavano a completare la mia composizione fotografica. Mi sono accorto che ero completamente affascinato dalla luce e dai suoi tagli geometrici. Poi ho avuto modo di approfondire un fotografo che mi è sempre piaciuto ma che non avevo mai studiato prima, Fan Ho. Lui non era un cacciatore, ma un pescatore. Ho trovato in lui molte somiglianze nel mio nuovo modo di pensare la fotografia. Certo, non sono le stesse foto né lo stesso stile, ma il concetto di partenza è lo stesso: studio un posto, la sua luce e annoto tutto sul mio taccuino e poi aspetto, aspetto che la persona giusta venga a comporre la mia fotografia.
IO : Pensi di poter dare una definizione personale alla fotografia?
Paolo : Non so darti con esattezza una definizione di fotografia se non quella originaria, scrittura con la luce. Per me la fotografia è un’estensione del nostro essere. Se riusciamo a liberarci dagli schemi mentali che ci tengono imprigionati, e che a volte ci portano a fotografare più quello che piace agli altri che a noi stessi, si può dire che la fotografia è il nostro biglietto da visita al mondo: ci mette a nudo e permette a tutti di vederci per ciò che siamo veramente. La chiamerei senza dubbio “Rappresentazione del nostro tempo”.
IO : Quale libro porteresti in un isola deserta?
Paolo : Fotografico porterei Streetphotography e immagine poetica di Alex e Rebecca Norris Webb, non fotografico qualsiasi libro, purché lo abbia scritto James Patterson e che il suo protagonista si chiami Alex Cross.
IO : Qual’è la mostra che ultimamente ti ha colpito?
Paolo : Sicuramente quella che ho visto al Maxxi la scorsa estate, “Era come entrare nelle cose”, di Domenico Notarangelo. Sono entrato con il sorriso e sono uscito in lacrime. La forza delle sue immagini ha scaturito in me un tornado di emozioni che mi ha scosso nel profondo e mi ha fatto riflettere su quello che abbiamo perso: le nostre tradizioni e i nostri costumi. Le sue foto hanno segnato un’epoca che in parte noi non vivremo più e che i nostri figli potranno conoscere solo attraverso i lavori di persone come Mimi.
IO : Di solito cosa cerchi nelle tue fotografie?
Paolo : Cerco qualcosa che mi colpisca e che mi sorprenda. Ogni volta che esco, so benissimo dove andare e che tipo di fotografia voglio fare in un determinato posto e con quella determinata luce, ma non lascio che questo influenzi la mia giornata. Spesso capita che, lasciando la mente libera, riesco a portare a casa scatti anche migliori di quelli che mi ero prefissato di fare.
La fotografia di strada secondo Paolo Longo
Tra le tante discussioni con Paolo c’è : che cos’è la streetphotography? In questo periodo in tanti stanno dicendo la propria opinione e io vi riposto la sua opinione in merito.
Il bello della fotografia di strada è che tutti possono farla in maniera semplice. Lo sguardo dell’osservatore può essere colpito da una luce, da un’ombra, da un’azione, da un’espressione, da un colore; non deve necessariamente raccontare una storia, non è documentaristica. Se fotografo una persona anziana triste e sola seduta su una panchina, quello scatto deve lasciare spazio all’immaginazione dell’osservatore. Non sono io a dover raccontare una storia a chi guarda, perché noi in realtà fotografiamo uno sconosciuto di cui non sappiamo nulla. Quell’anziano triste e solo, che a un primo sguardo può farci tenerezza, magari da giovane stuprava le capre in Via Frattina e noi non lo sappiamo. Se entriamo nella vita di quell’anziano e ci facciamo raccontare la sua vita e la sua routine, con una serie di scatti che rappresentano la sua vita passata e presente, allora sì che possiamo raccontare una storia.
Ma la street non deve raccontarvi un c°°°o di niente. Vi deve piacere la foto, punto. Deve ingrassare gli occhi e solo l’osservatore, se vuole, può farci un film sopra. Chi asserisce il contrario dice cazzate, e lo fa solo ed esclusivamente per evitare le critiche del mainstream: “Siccome tutti dicono così, allora mi conviene dire così”.
Conclusione
Le domande che ho riportato su questo articolo sono parziali, e vi invito ad ascoltare l’intervista sul podcast.
vi invito inoltre ad iscrivervi alla mia newsletter per essere sempre aggiornati sugli eventi e workshop in programma, alla registrazione sussiste un invio di una lezione online sulla composizione non lasciatevela sfuggire!
Buona Luce
Emanuele